Suicidio e deontologia professionale: il ruolo del giornalista

Un suicidio ogni 80 secondi. Togliersi la vita è la seconda causa di morte tra i giovani dai 15 ai 29 anni, preceduta solo dagli incidenti stradali. Un tema intrecciato con la sfera emotiva e personale di un individuo, un avvenimento di fronte al quale il giornalista può e deve compiere un passo indietro armandosi di buonsenso e delicatezza. “Prima di scriverlo, pensa”: questo il monito con cui Carlo Bartoli, presidente ODG Toscana, alza il sipario sul panel intitolato “Il suicidio e la deontologia professionale”, presso il Teatro Santuccio di Varese.

Ma da dove nasce il buonsenso? Si tratta in primis di stabilire quando un suicidio “fa notizia”. Distinguere tra un avvenimento che ha ripercussioni sulla comunità e quello che rimane un mero fatto umano, una scelta frutto di un dramma personale che il cronista ha il dovere di trattare con i guanti. Quando si ha a che fare con una notizia del genere uno dei più grossi spauracchi si chiama “Effetto Werther”, ovvero il pericolo dell’emulazione.

Una correlazione tra la diffusione di una notizia di suicidio e l’aumento delle persone spinte a togliersi la vita non è ancora stata dimostrata. Esistono però ricerche e campioni statistici a riguardo: lo studioso David Philips, analizzando 33 casi di suicidio finiti in prima pagina, rilevò come 26 di questi avessero coinciso con una crescita del fenomeno emulativo. Di contro, il professor Elmar Etzersdorfer dimostrò come l’introduzione di linee guida nella diffusione di una notizia di suicidio possa invece sortire degli effetti positivi. L’esperimento venne applicato alla metropolitana di Vienna, col risultato che i casi di suicidio nelle stazioni della capitale austriaca diminuirono del 75%.

Ma quali sono le linee guida più importanti per un giornalista che ha a che fare con un caso di suicidio? Carlo Bartoli individua due aspetti fondamentali. Nel limite del possibile evitare di riportare il luogo dell’avvenimento, così che un ponte, un binario o un edificio non vengano etichettati come “luoghi di suicidio” nel credo popolare. In secondo luogo è importante non ricercare a tutti i costi una correlazione univoca: le cause che possono portare una persona a farla finita possono essere tante, il risultato di un lungo processo psicologico. Attribuire il suicidio a una delusione d’amore, un compito a scuola andato male o un brutto periodo lavorativo è una banalizzazione della realtà.

 

 

Mauro Manca

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