Nessun giornalista è un’isola

Il risultato non è uguale alla somma dei singoli componenti. Più giornalisti con competenze diverse, la condivisione di risorse, raccolta di informazioni e dati. Sono questi gli ingredienti di un giornalismo collaborativo, che sorvola sul locale, il nazionale e l’internazionale.

Nella cornice barocca del Salone Estense si è tenuto l’incontro “Nessun giornalista è un’isola”, per parlare dell’importanza di costruire squadre di lavoro ad hoc per occuparsi di temi specifici, d’inchiesta o di reportage, condividendo con altre testate conoscenze, tempi e difficoltà.

Alessia Cerantola, coordinatrice editoriale per il consorzio di giornalismo investigativo OCCRP, si occupa di inchieste transnazionali con IRPI (Investigative reporting project Italy) sul modello internazionale, di matrice anglosassone: si tratta di riunire un pool di giornalisti che lavorano ad un tema interessante per più testate. Un modello collaborativo molto diverso da quello che si intende oggi nelle testate italiane di riferimento: la pubblicazione per più giornali, sempre in modo capillare e accurato.

Tante le tematiche approfondite: dalla corruzione, alla criminalità organizzata, la difesa dei diritti umani. “Cerchiamo di raccontare anche temi più complessi come le inchieste finanziarie, temi cari al pubblico”. Sono tanti i vantaggi di avere più giornalisti a raccontare e a lavorare su un solo progetto: è un approccio migliore per districarsi nella mole di dati immensa, superare i limiti linguistici, avere più competenze tecniche e di interesse. È un grande patrimonio per il giornalismo e un valore aggiunto.

Le storie non possono essere classificate come solo locali, nazionali o internazionali, ma dipendono da come vengono collegati i puntini. Il punto più interessante è la trasversalità che attraversa vari ambiti, vari interessi, per un obiettivo comune, attraverso soluzioni narrative crossmediali. Questo modello collaborativo è importante sia per il contenuto, ma anche per le risorse delle redazioni e gli strumenti di cui siamo oggi a disposizione.

“Gli strumenti a cui abbiamo accesso come giornalisti al giorno d’oggi rende molto più soddisfacente l’organizzazione del giornalismo investigativo”, ha dichiarato il cyber journalist,Raffaele Angius.

Ha fondato una testata giornalistica investigativa sarda, Indip, nata grazie al crowdfounding che si occupa di investigazione e reportage, con chiarezza, accuratezza, verifica delle fonti, secondo il principio dello Slow Journalism.

“Il giornalismo di tanti anni fa, per alcuni aspetti era meglio perché non c’erano interferenze iper-capitalistiche molto incisive nelle grandi testate, però non ha niente a che vedere con gli strumenti e le tecnologie che abbiamo oggi”.

Una delle inchieste significative e ancora molto attuale è stata quella riguardante il tracciamento delle risorse e dei beni di oligarchi russi, con un focus in Sardegna, specialmente in Costa Smeralda. È un tipo di slow journalism, che investe nella qualità: ci vogliono i mezzi, le risorse ed un approccio mentale per occuparsi di casi come questo.

Una delle inchieste di maggior impatto? “Quella sulla presenza della criminalità organizzata in Sardegna, partendo dall’arresto di un giovane ragazzo che a Cagliari possedeva cocaina pura. Siamo partiti da un caso locale e siamo arrivati ad un giro che riguarda l’Albania, la Spagna, la Corsica e la Calabria. La Sardegna oggi è il più grande esportatore di marijuana finanziata dalla ‘ndrangheta”.

A partecipare all’incontro anche Daniela Sala, fotografa e giornalista multimediale, nel 2020 dall’isolamento del giornalista freelance e dalla frustrazione che ne deriva, ha co-fondato il collettivo Fada, che si occupa della produzione di reportage sui diritti, ambiente, migrazioni, società civile e di minoranza.

Nel 2020 ha realizzato il reportage di approfondimento sulla de-carbonizzazione e sui fondi europei che servono per dismettere le centrali a carbone. Un progetto che l’ha portata in Bulgaria, a collaborare con i colleghi locali e a misurarsi con ambienti molto diversi tra loro, ma accomunati dalla stessa problematica. Tra i suoi lavori, il reportage sullo spopolamento delle isole, in collaborazione con una testata scozzese e quello sugli incendi in Europa la scorsa estate.

Il lavoro giornalistico odierno vuole scardinare l’idea che vi era di redazione tradizionale, per abbracciare quella di realtà diverse, che fanno rete tra loro per un obiettivo comune. Magari in una direzione futura.

E come relazionarsi con la paura? Al di là dei timori di un giornalista sul campo, la ricchezza di avere una rete alle spalle rassicura e dà coraggio. Ricordiamo l’uccisione di Daphne Caruana Galizia, che si occupava di corruzione e criminalità. “Puoi uccidere un giornalista ma non la storia”: questa è il messaggio più forte che ne viene fuori. Le storie vanno raccontate, e attraverso la collaborazione di più persone competenti ed interessate, viene fuori un risultato migliore.

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